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La bona, il brutto e il cattivo – omaggio a Sergio Leone.
Sono in ascensore, in ospedale. Non ci volevo venire.
«Visto che tanto passi di là, puoi prendere le medicine a papà? Alla farmacia del reparto nefrologia. 4° piano, scala D.»
Facile: andarci sì, uscire no.
È un errore che faccio sempre. Scendendo esco al piano rialzato. Non è il piano terra, non è nemmeno il primo piano. È una terra di mezzo che non dovrebbe esistere, un sottosopra alla Stranger Things e infatti da lì non c’è uscita, nemmeno se riprendi lo stesso ascensore con cui sei arrivato. Quelli dell’ospedale sono a prenotazione e, anche se manca mezzo piano alla salvezza, torni al quinto.
Al quinto scendo. Troppa gente che non vuol prendere le scale, li capisco, ma non è sicuro un ascensore con tutto quel peso. Sottraggo il mio. Proctologia.
Bevo un caffè alla macchinetta prima di riprovarci. C’è anche una ragazza al distributore. Beviamo e poi andiamo all’ascensore. La buona notizia è che al quinto si può prenotare solo la discesa, però sono incazzato lo stesso. Sono incattivito. Così cattivo che, se mi va male anche stavolta, sono disposto a prendere in ostaggio un bambino con il gesso pur di guadagnare l’uscita. Senza farmi problemi di coscienza.
Le porte si aprono e c’è già un uomo dentro. Avrà dovuto subire la penitenza delle prenotazioni, chissà da che piano arriva. Io e la ragazza saliamo e mi guadagno il fianco della cabina, vicino alla pulsantiera. Comando io. Siamo solo noi tre, in silenzio, viso alle porte.
L’uomo è brutto, come uno che non è mai stato altro, nemmeno da bambino. Sulla quarantina. Occhi piccoli e porcini, naso a patata, guance cadenti. La testa in cima sembra un ginocchio peloso, ai lati ha dei capelli insensatamente folti, neri, ricci, lunghi e unti. Tiene il tutto, quello che ha e quello che non ha, tirato indietro con degli occhiali da sole da ciclista, usati a modi cerchietto. Indossa abiti da lavoro ed è sgualcito come fosse appena caduto in un dirupo. A completare il tutto il fisico imbolsito si realizza in una ciambella di adipe che lo circumnaviga . La cintura portata molle e i pantaloni da lavoro sformati promettono una “gettoniera”, quel pezzo di riga di culo che esce quando l’idraulico si china sotto il lavello.
Tutte queste considerazioni le faccio in un millesimo di secondo, perchè la mia attenzione è decisamente più focalizzata su lei, la Bona.
Scommetto sui 35. Castano ramata, i boccoli cesellati da Benvenuto Cellini arrivano alle scapole. I lineamenti sono regolari ed è truccata in quel modo che si usa adesso, sì, quello che non si deve vedere che sei truccata.
Divago. Ricordo che quando ero ragazzetto le mie amiche si truccavano come Joker. Il fine settimana indossavo camice bianche e, per capire con chi ero uscito, bastava studiare la sindone lasciata sul candore della mia camicia. ‘Na fotocopia.
E’ vestita causal chic. Non so perché, ma lo so. Golfino, giacca elegante corta, jeans morbidi che si appoggiano su un culo da tre allenamenti alla settimana, decolletè. Sarà 1 e 62, ma sulla carta di identità c’è scritto 1 e 72, perchè lei c’è nata con quelle Louboutine. Anche quando le toglie rimane in punta di piedi, le si è accorciato il tallone d’Achille.
Non scambiatele per lamentele, come detto è proprio bona. E’ una “Nostra Signora Belen degli aperitivi”, una “Santa Elodie da privè al Pineta”, una diecimila follower con proposte di acquisto foto dei piedi anche sotto il post che la ritrae al mare con il nipotino. Copy: “l’unico amore della mia vita” #natazia #esserenormalelacosaspeciale. Emoticon: pace, cuore, lacrimuccia.
Ho reso l’idea?
Comunque. Siamo lì, viso alle porte. La Bona, il Brutto e il Cattivo. Nel silenzio solo il rumore del movimento dell’ascensore e il respiro affannato del Brutto, quando… la sento. La loffa.
Una camera d’aria che si sgonfia piano, dopo aver fatto il rumore di quando apri una bombola del gas nuova. Ma non è il rumore il problema. Mancano ancora tre piani, forse tre e mezzo con il piano rialzato, quando il miasma si espande per la cabina. È solfatara, uovo marcio con una consistenza fisica che scivola sulla pelle. Porto la mano concava in faccia e cerco di respiraci dentro, come in una bolla d’aria prima di affogare. Non dico niente.
In questi casi vige una regola assoluta: “La prima gallina che canta ha fatto l’uovo”. Nessuno dice nulla. Ci lanciamo sguardi furtivi, accuse mentre si cerca di sopravvivere. Poi le porte si aprono e ci precipitiamo fuori, senza nemmeno guardare a che piano siamo. A bocca aperta, grati di quell’aria, anche se sa di medicinale e disinfettante.
Mentre recuperiamo il respiro, però, non ci perdiamo di vista. Non si può far deflagrare una cosa del genere in due metri quadri e poi non chiedere scusa. Ripristiniamo la posizione eretta. Con gli occhi stretti a fessura guardo lui e lei, che si guardano fra loro e guardano me.
La Bona, il Brutto e il Cattivo, in uno Stallo alla Messicana. Chi è stato? La Bona non le fa mai, il Brutto è colpevole una volta su due e il Cattivo quattro volte su cinque. Non sono stato io e non intendo cedere.
Ci giriamo attorno. Non fa per niente caldo, ma il Brutto ha la fronte imperlata di sudore. La Bona guarda nervosamente il cellulare, permanentemente rivolto al viso, aiutata da una Luis Vitton al gomito che fa da contrappeso.
Io non ho urgenze, mentre il Brutto scommetto che sta calcolando i minuti preziosi alla sopravvivenza della sua Partita Iva. La Bona riceve notifiche a raffica, la sua vita Social non ammette distrazioni.
Così la tensione diventa troppa e si rompe. La Bona raddrizza le spalle e ne molla una rumorosa, come sassi che rotolano dentro un secchio vuoto.
«Ho la colite! Va bene!? Ma mi piace il frappuccino della macchinetta. E sapete cosa? Me lo merito!”
Poi gira le Louboutine in direzione opposta alle nostre facce stupefatte e se ne va. Il Brutto sospira una bestemmia alla Madonna, da cui traspare un certo sollievo per essersela cavata, tutto sommato. Anche lui se ne va.
Io faccio un respiro profondo, recupero il mio centro e guardo la targhetta a lato dell’ascensore per capire dove sono finito.
C’è scritto: “Pianto Rialzato”.
Dado Cardone
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